Riflessioni etiche in punta di piedi
Ritengo che, per discutere del tema della sostenibilità, sia imprescindibile riflettere prima sull’etica, sull’umano ed il suo rapporto con la tecnica. Introdurre argomenti tanto vasti e complessi, ha comportato una semplificazione del dibattito filosofico riguardante questi temi. Al di là del fatto che, in filosofia, la pretesa di esaustività sia un’illusione, ho ritenuto necessaria questa strategia comunicativa, al fine di raggiungere l’obbiettivo di allargare il più possibile la platea a cui questo saggio vuol fare da riferimento. Semplificare è un sinonimo di snellire. Qualcosa di snello richiama alla mente un qualcosa predicabile di esser anche agile e leggero. Nel dar corpo allo scritto ho tenuto bene a mente lo spirito che anima l’intento di Eraclito 2000: quello di trasmettere concetti e idee, densi e significativi, con quella “leggerezza pensosa” di cui parla Calvino; snellendo l’azione comunicativa da possibili pesantezze e garantendo, allo stesso tempo, di elevare il proprio pensiero e le proprie azioni. Nel caso di specie, vorrei ricordare i tre punti sulla leggerezza che Calvino elenca attraverso l’aneddoto che egli riporta su Cavalcanti in Lezioni americane:
Ho ripreso la suggestione del camminare in punta di piedi da un libro di Luigi Alici – Il fragile e il prezioso –, non solo per garantire al lettore l’idea di leggerezza, ma, allo stesso tempo, per dare l’idea che gli argomenti trattati necessitino di un’adeguata prudenza e discrezione. D’altronde, la vita, come ci ricorda Pascal, «è la cosa più fragile del mondo»[2]. L’augurio che ripongo in questo saggio è che esso possa essere, per il lettore, se non un esempio di leggerezza, quantomeno uno di agilità, tale da garantirgli la possibilità di destreggiarsi al meglio nel vivo del dibattito etico-tecnico contemporaneo. Infine, ho ritenuto opportuno esporre anche le mie opinioni a riguardo delle tematiche trattate, con lo scopo di rendere più umana – e quindi maggiormente preziosa[3] – l’esperienza di lettura del testo.
Il concetto di sostenibilità accostato a quello di tecnica
Il concetto di sostenibilità ha a che fare con il garantire che il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente non vada ad inficiare la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri. Il bisogno di interrogarsi sulle necessità delle generazioni future è divenuto impellente dopo lo sgancio delle due bombe atomiche sul suolo giapponese. Hans Jonas riporta in un suo saggio che Robert Oppenheimer, dopo gli eventi di Hiroshima, affermò che la scienza – si riferiva alla fisica nucleare e al suo contributo alla creazione della bomba atomica – aveva conosciuto il peccato[4]. Da allora, tale turbamento della coscienza si è esteso anche al di fuori dell’ambito della ricerca scientifica, attanagliando l’opinione pubblica. Dunque, non deve sorprendere il fatto che l’etica abbia voce in capitolo nelle questioni della tecnica. Di fatti, in linea generale, la tecnica è un esercizio di potere umano e, come ogni agire umano, anch’essa è esposta al giudizio morale.
La sostenibilità ha cominciato ad essere considerata come una priorità per il genere umano, come si è detto, solo nell’era contemporanea, ma è nell’era della modernità che si può apprezzare, secondo Jonas, la genesi di questo bisogno per l’umanità. Il filosofo ritiene che, nel passaggio dall’era antica a quella moderna, il rapporto che l’uomo ha sempre portato avanti con la tecnica sia cambiato drasticamente. Nel saggio Riflessioni sui nuovi compiti dell’etica[5] Jonas scrive che, in antichità, la tecnica dell’uomo si rapportava con la natura solo in maniera superficiale. Essa solcava la terra e i mari con la forza e l’ingegno, ma il suo potere rimaneva comunque piccolo innanzi all’eterna e immutabile terra, la quale non veniva considerata come un oggetto. Gli stessi oggetti tecnici erano eticamente neutri, perché ancora dipendenti dall’uomo e il ruolo della conoscenza rispetto al pensiero morale era limitato. Se, in una prospettiva come quella kantiana, si poteva ancora ritenere che l’adesione al suo imperativo etico fosse avulsa da qualsivoglia conoscenza specifica, oggi Jonas ritiene ciò impossibile, alla luce della stessa vulnerabilità della natura nei confronti dell’agire umano e della sua tecnica moderna. I confini tra natura e tecnica sfumano così nella figura del homo faber[6]: oggetto stesso della tecnologia.
In Perché la tecnica moderna è oggetto dell’etica[7], Jonas si occupa della tecnica moderna in riferimento all’agire dell’uomo. In questo saggio Jonas riporta le principali differenze che distinguono la tecnica moderna da quella antica. La prima riguarda la peculiare ambivalenza degli effetti che caratterizza la tecnica moderna. Il rischio che essa possa causare effetti malevoli non si limita ad un utilizzo cattivo della tecnica stessa, ma può conseguire anche da un suo utilizzo per fini positivi. La seconda concerne l’inevitabilità dell’applicazione. Il possesso di una nuova tecnica coincide con la sua attivazione e il suo utilizzo, estendendo quindi l’interesse etico oltre la puntualità della decisione d’utilizzo, all’interno del processo stesso. La terza dissomiglianza si focalizza sulle dimensioni globali che caratterizzano gli effetti della tecnica moderna. Dimensioni tali da raggiungere e coinvolgere le generazioni future. La rottura dell’antropocentrismo è la quarta differenza. Infatti, l’uomo in passato era contrapposto alla natura, e l’etica era rivolta all’esclusivo rapporto con i suoi simili (“ama il prossimo tuo…”). Invece oggi l’etica si estende alla vita intera, alla biosfera (che è anch’essa vulnerabile)¸ perché il privilegio dell’uomo è compromesso dalla stessa tecnica. L’ultima discrepanza riguarda il potenziale annichilente che la tecnica pone di fronte al problema inedito della sopravvivenza dell’uomo sulla terra. Determinare da un punto di vista filosofico se tale sopravvivenza è un valore inalienabile, permette di aprire la questione sui limiti che, forse, si dovrebbero porre alla tecnica.
Jonas ritiene che nel pensiero degli scienziati moderni alberghi la visione dell’infinitezza virtuale del progresso. Infatti, il concetto di infinitezza differisce da quello di perfettibilità, caro alla tecnica antica. Nella tecnica moderna vi è un processo di innovazione continua che supera le dimensioni del perfezionamento. L’innovazione continua avviene grazie al reciproco rapporto di influenza che vi è tra tecnica e scienza. La tecnica infatti segue i passi avanti della scienza e i suoi progressivi approfondimenti, ed estensioni della sua indagine. Viceversa, la stessa scienza si serve dei sempre più raffinati strumenti tecnologici per raggiungere i suoi sofisticati risultati. In Perché la tecnica moderna è oggetto della filosofia[8] Jonas è concorde nell’affermare che la tecnica sia divenuta uno dei principali compiti dell’umanità. Così facendo, la tecnica – da sempre avente ruolo strumentale – viene pensata dall’uomo come fine. Jonas lo definisce come “prestigio” prometeico: «la tentazione di rivestire della dignità di scopo più alto la sua attività senza fine – cioè di innalzare a fine ciò che all’origine era mezzo, e vedere in esso la vera destinazione dell’umanità»[9].
Gli strumenti dell’etica come viatico per una sintesi tra natura e cultura
Per giungere allo scopo di recuperare un fine maggiormente consono al consorzio umano, è imprescindibile, secondo me, continuare a dialogare attraverso gli strumenti della riflessione etica. Secondo Luigi Alici, il dibattito etico contemporaneo è però dilaniato da un paradosso, riguardante la prassi da intraprendere nella sfera privata e in quella pubblica dell’individuo umano. I modelli su cui si fonda il dibattito etico contemporaneo sono il principio di autonomia e quello biocentrico. Il principio di autonomia, che caratterizza la maggior parte delle riflessioni della bioetica, tende sempre in esse ad estremizzarsi, diventando principio di autodeterminazione del singolo soggetto umano. In bioetica è l’etica pubblica che deve tener conto delle scelte individuali dei singoli. Viceversa, il paradigma biocentrico – a cui si rifanno, per esempio, l’ecologia, il naturalismo e l’animalismo –, identifica nello specismo il problema cardine della sua riflessione etica. In ecologia e in bioetica prevalgono, dunque, modelli etici completamente opposti. In ecologia – si è asserito poc’anzi – prevalgono, quindi, etiche severamente eteronormative, di ordine pubblico/statale; mentre in bioetica prevalgono etiche private, estremamente soggettive. Il paradigma biocentrico riflette sulla natura, tralasciando la cultura, mentre la bioetica si prende la responsabilità di occuparsi della cultura, a discapito della natura.
La soluzione che Alici propone a questo paradosso etico è quella di promuovere un’azione di sintesi tra la tendenza culturalista della bioetica e quella naturalista del paradigma biocentrico. Secondo Alici, il moto di avvicinamento progressivo di queste due posizioni opposte deve essere portato avanti, depotenziando le pretese di assoluta autonomia che caratterizza la maggioranza dei pensieri bioetici; e promuovendo la comprensione, nelle etiche ambientaliste, del vero valore della vita, che è l’unico luogo dove albergano il fragile e il prezioso: «la delegittimazione più o meno esplicita della fragilità è un requisito non secondario di ogni antropocentrismo, mentre il rifiuto dello statuto “prezioso” dell’umano (proprio in ragione della sua fragilità!) è un punto qualificante dell’approccio biocentrico»[10].
L’aggettivo “fragile” deriva dal verbo latino “frangere” e qualifica ciò che è facile a rompersi, spezzarsi. La semantica della fragilità evoca alla mente un frantumarsi o uno sbriciolarsi in maniera irreparabile. Sartre sostiene che «un essere è fragile se comporta nel suo essere una possibilità definita di non-essere»[11]. Il non-essere a cui fa riferimento Sartre può essere inteso come quella dimensione della fallibilità che costituisce una parte della natura caduca dell’umano. L’aggettivo “prezioso”, invece, deriva da “pretium” e la sua radice etimologica porta a identificare un oggetto al quale può essere attribuito un alto valore, commisurato a parametri esterni, e dunque, possibilmente soggetto di scambio con oggetti di egual valore. Una seconda accezione del termine “prezioso” – maggiormente consono alle tematiche trattate finora – riguarda il possedere una qualità intrinseca, che proprio per questo assume un valore incommensurabile e quindi unico. Secondo Alici è sommamente prezioso colui che è intrinsecamente unico e non intercambiabile. L’unicità irripetibile della persona umana, garantita dal suo statuto ontologico prono alla finitudine, trasmuta un virtuale[12] disvalore come la fragilità nel valore aggiunto della preziosità. Ciò è maggiormente apprezzabile nel luogo del “Noi” di una società composta da individui umani, dove il contatto, la tenerezza, la sensibilità e l’empatia devono essere le cifre significative del suo dialogo interno. Bisogna opporsi, dunque, all’uso di etichette cariche di odio – come per esempio “negazionista climatico”[13] ed altre dello stesso genere – per connotare il proprio prossimo. Ciò è necessario qualora si voglia edificare un dibattito costruttivo, alla pari, senza escludere nessuno dalle cerchie di condivisione delle credenze[14] che danno corpo alla società. Pena la stagnazione del dibattito nella modalità della relazione disumanizzante e spersonalizzante “Io-Esso”[15], individuata da Martin Buber: l’odio non è un sentimento che può promuovere la costruzione di un futuro sostenibile.
Il valore assoluto che una certa antropologia filosofica garantisce al principio di autonomia passa per il disprezzo – altra passione triste – della condizione di fragilità che connota l’essere dell’uomo. Ma tale dispregio nasconde il rifiuto di accettare la realtà dei fatti: l’assoluta autonomia è un’illusione, così come l’assoluta abnegazione nei confronti della natura, a discapito della vita. Come la bioetica deve ascoltare le ragioni del paradigma biocentrico, perché tutti gli individui umani sono reciprocamente interdipendenti; così l’ecologia deve ascoltare le ragioni della bioetica, al fine di garantire che ogni individuo possa assumersi le responsabilità delle proprie scelte. Dunque, bisogna garantire l’autonomia morale a discapito di quella ontologica, che vede l’uomo come un’isola in mezzo al mare.
Un mito per il progresso
Alici, in Il fragile e il prezioso, riprende un mito – riportato nel liber fabularum del mitografo Igino –, riguardante la dea Cura, che ritengo possa esser costruttivo esporre ora, per tirare un po’ le somme, a conclusione di queste riflessioni:
Cura, nell’attraversare un fiume, vide del fango argilloso, lo raccolse pensosa e cominciò a modellare un uomo; mentre stava osservando ciò che aveva fatto, arrivò Giove, Cura gli chiese di dar vita alla statua e Giove la esaudì senza difficoltà; ma quando Cura volle dargli il proprio nome, Giove glielo proibì e disse che doveva dargli il suo. Mentre Giove e Cura discutevano sul nome, intervenne anche la Terra, dicendo che la creatura doveva avere il suo nome, poiché era stata lei a dargli il corpo. Elessero a giudice Saturno, che a quanto pare diede un parere equo: “Tu, Giove, perché gli hai donato la vita […] ne riceverai il corpo. Cura, poiché per prima lo ha modellato, lo possegga finché vive; ma visto che è sorta una controversia a proposito del nome da dargli, lo si chiami uomo, poiché è fatto di humus[16].
La morale di questo mito, a mio dire, è che nell’uomo alberghi fin dal principio la propensione a prendersi cura. La cura è una modalità costitutiva delle relazioni interpersonali, ma non solo. Infatti, la presa in carico da parte dell’uomo, come del suo destino, così anche della natura, è un fattore che caratterizza in maniera imprescindibile l’essenza stessa dell’essere umano. Non a caso i termini “coltura” e “cultura” condividono la medesima radice etimologica. L’orizzonte di senso a cui l’uomo deve tendere è, dunque, la coltivazione della propria cultura. Di fatti, si può pensare alla cultura stessa come alla sua «seconda natura»[17]. L’uomo è un essere naturale, capace di essere culturale – o spirituale, a seconda dei sistemi filosofici ai quali si aderisce – e la cultura può venire ad essere intesa come una forma di «coltivazione spirituale della natura»[18]. Proprio come l’agricoltore cura la natura (per es. attraverso l’arte della potatura), l’uomo deve, infine, assecondare le finalità proprie delle singole tecniche che ha sviluppato, impegnandosi a frenare quelle improprie e garantendo alle future generazioni un avvenire sostenibile. Ritengo si debba tornare a ricordarsi di come il microcosmo umano sia necessariamente contenuto nel macrocosmo universale e che entrambi gli ordini siano le due facce del medesimo logos. La libertà di essere nient’altro che se stessi, che Spinoza, nella sua Etica, ha individuato attraverso un modello di razionalità forte – quello della geometria – evoca un orizzonte di senso che è peculiare ad un unico piano fisso di immanenza[19] capace di accomunare tutti gli individui, attraverso la piena accettazione del prossimo.
[1] I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, Milano 1996.
[2] B. Pascal. Pensieri, tr. it di A. Bausola e R. Tapella, Bompiani, Milano 2009.
[3] D. Pardini, In strada. Percorsi di sviluppo personale, La Parola, Roma 2012.
[4] H. Jonas, Scienza libera da valori e responsabilità: autocensura della ricerca? in Tecnica, medicina ed etica, Einaudi, Torino 2006.
[5] H. Jonas, Frontiere della vita, frontiere della tecnica, il Mulino, Bologna 2011.
[6] Ibidem.
[7] H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica, Einaudi, Torino 2006.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem.
[10] L. Alici, Il fragile e il prezioso. Bioetica in punta di piedi, Morcelliana, Brescia 2016.
[11] J. P. Sartre, L’essere e il nulla, tr. it. di G. Del Bo, rev. di F. Fergnani e M. Lazzari, Il Saggiatore, Milano 2013.
[12] In merito alla nozione di “virtuale”, «da un punto di vista teorico non si contrappone al concetto di “reale”. Certo, essa va rettamente intesa: nella misura in cui racchiude e collega fra loro, nell’ordine, gli elementi della possibilità – termine che indica una maggiore ampiezza e ricchezza di determinazioni rispetto a ciò che risulta effettivamente esistente –, della potenzialità – vocabolo che esprime la condizione in cui qualcosa si trova prima di attuarsi davvero, la pre-condizione, cioè, che ne rende possibile il compimento – e della potenza – parola che qui va intesa nel senso del potere che qualcosa ha, in sé, di compiere uno specifico atto o di realizzarsi in un certo modo. Conformemente a tali caratteri, allora, “virtuale” è ciò che possiede una virtus. Letteralmente, la “virtù”, la capacità di fare qualcosa, e specialmente di farsi come qualcosa. In altre parole: virtuale risulta non solo ciò che ha la potenzialità di realizzarsi in maniera conforme alla sua natura, ma soprattutto ciò che ha il potere di diventare quel che era in potenza, che ha in sé la “virtù”, insomma, di attuarsi secondo le varie possibilità in esso inscritte e sempre disponibili»: A. Fabris, Etica della comunicazione, Carocci, Roma 2014.
[13] E. Cavallini (a cura di), Custodire il mondo, oggi, Campano, Pisa 2023.
[14] S. Veca, Prefazione in Voltaire, Trattato sulla tolleranza, tr. it. di L. Bianchi e rev. di S. Veca, Feltrinelli, Milano 2019.
[15] A. Kaplan, Il duologo. La vita del dialogo, tr. it. di G. Scarafile, Morcelliana, Brescia 2021.
[16] L. Alici, Il fragile e il prezioso. Bioetica in punta di piedi, Morcelliana, Brescia 2016.
[17] Ibidem.
[18] Ibidem.
[19] G. Deleuze, Cosa può un corpo, cur. A. Pardi, Ombre Corte, Verona, 2013.
BIBLIOGRAFIA PRIMARIA
BIBLIOGRAFIA SECONDARIA
Voltaire, Trattato sulla tolleranza, tr. it. di L. Bianchi e rev. di S. Veca, Feltrinelli, Milano 2019.
M. Zambrano, La salvezza dell’individuo in Spinoza, Castelvecchi, Roma, 2021.
Antonio Leone ha conseguito la laurea in filosofia presso l’Università di Pisa. Precedentemente si è laureato in infermieristica presso l’università degli studi Magna Græcia di Catanzaro. A cavallo fra i due percorsi di studio ha lavorato per il Servizio Sanitario Nazionale Inglese, perfezionando così la sua conoscenza della lingua. Ad oggi frequenta il corso magistrale in filosofia e forme del sapere presso l’Università di Pisa. I suoi interessi filosofici riguardano lo studio dell’ontologia d’età moderna e contemporanea e quello concernente le etiche applicate. Attualmente scrive e si occupa di formazione.
Eraclito 2000 sviluppa da trenta anni attività formative rivolte ai giovani che si affacciano al mondo del lavoro con l’idea centrale di creare una interrelazione diretta tra l’associazione e il tessuto socio-economico regionale e nazionale.
“L’esperienza è stata Innovativa, totalizzante, evolutiva e… a rilascio prolungato. La consapevolezza di ciò che ho appreso è stata per alcuni aspetti immediata mentre, per altri, mi me ne sono resa conto nei mesi successivi alla conclusione dell’esperienza CIBA, e sono convinta che tanto ancora beneficerò degli insegnamenti ricevuti”
– Letizia Marcacci
“Il CIBA è una bellissima esperienza personale e formativa che porterò certamente dentro di me per tutto il resto della vita. Mi piace dire che il Master Intensivo in CIBA è un master che non va raccontato, ma va vissuto in prima persona.”
– Luca Baldoni
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